Venerdì sera sono stato a cena in un piccolo ristorante nella darsena viareggina, da “Lucifero”. Che insolito nome per un ristorante, porta con sé un senso di contraddizione seducente. Da un lato, abbiamo il ‘portatore di luce’, simbolo di splendore e conoscenza. Dall’altro, evoca il ‘principe delle tenebre’, maestro dell’inganno e delle ombre – un avvertimento dove la promessa di luce può nascondere trappole e illusioni. Questa antinomia rende il nome Lucifero una scelta provocatoria, il gioco tra luce e oscurità, verità e menzogna, insomma una dichiarazione di intenzione e mistero… culinario!
Finita la cena, mentre uscivo dal locale, ho notato alla parete uno specchio convesso che mi ha ricordato l’iconico dipinto “Ritratto dei coniugi Arnolfini” di Jan van Eyck. Ed è così che mi ritrovo con la mia immagine riflessa nel globo specchiante e contemporaneamente al centro del dibattito secolare riguardo l’invenzione della prospettiva.
Sappiamo che i tentativi di rappresentare lo spazio tridimensionale su superfici bidimensionali come tele, tessuti, muri e tavole risalgono a epoche remote, questi tentativi sono difficili da categorizzare e organizzare in una serie temporale. In generale, possiamo distinguere tre principali modalità attraverso cui gli artisti rappresentavano e ad oggi continuano a rappresentare la prospettiva nelle loro creazioni:
Una “Prospettiva intuitiva” – era la forma di rappresentazione utilizzata prima del Rinascimento, caratterizzata da una resa spaziale non coerente, con oggetti e figure raffigurati senza una regola matematica che permettesse di creare profondità realistiche. Questa prospettiva era spesso usata nelle composizioni dell’arte classica sino al medioevo, dove la funzione narrativa o simbolica prevale sulla rappresentazione accurata dello spazio.
Una “Prospettiva geometrica o lineare (italiana)” – fu sviluppata e formalizzata da artisti come Filippo Brunelleschi (1377 – 1446) e Leon Battista Alberti (1404 – 1472) e si basava su principi matematici che consentivano di disegnare una scena con una profondità coerente, utilizzando linee convergenti verso un punto di fuga. Questa tecnica rivoluzionò l’arte rinascimentale italiana, alcuni la identificano come l’inizio del periodo rinascimentale, cio permise agli artisti di creare un’illusione realistica dello spazio tridimensionale su una superficie piana e, a giudizio del Vasari, trasmettere quell’idea di bellezza che affonda le mani nella tradizione classica.
ed infine, una “Prospettiva ottica (fiamminga)” – i pittori fiamminghi come Jan van Eyck utilizzavano un approccio diverso, focalizzato sul realismo estremo e sull’osservazione empirica piuttosto che su un rigido sistema geometrico. Si servirono di strumenti come specchi, lenti e camere oscure per studiare la luce, la riflessione e i dettagli minuti. La loro attenzione alla resa dei dettagli e alla luce era così accurata da dare un effetto di profondità e realismo che poteva essere definito ‘ottico’ perché si avvicinava al modo in cui l’occhio umano percepisce naturalmente la realtà. Tuttavia, questa prospettiva non si basava su un punto di fuga unico e rigoroso, come avveniva nell’approccio italiano, ma su una rappresentazione più pratica.
Riassumendo, abbiamo detto che nell’antichità troviamo tentativi approssimativi di prospettiva, ma è con il Rinascimento che la tecnica viene perfezionata. Sperimentata per la prima volta da Filippo Brunelleschi, dove alcune fonti incerte raccontano che nel 1425 Pippo (così l’Alberti lo cita con dedica nel suo trattato – ‘De Pictura‘), dopo aver disegnato il Battistero di Piazza Duomo con una precisione tale che nessun miniatore avrebbe potuto euguagliarlo, si posizionò con l’opera, una tavoletta di 30×30 cm, a circa 3 braccia (1,80 mt) oltre l’interno del portone centrale della Cattedrale di Santa Maria del Fiore e con ingegno da quella precisa posizione sovrappose alla vista la tavoletta al battistero e ne verificò la perfetta sovrapposizione e continuità delle linee, questo esperimento pose le basi per la sua formalizzazione teorica che fu enunciata da Leon Battista Alberti nel trattato ‘De Pictura‘ (1435), dove descrisse i principi geometrici e matematici che regolano una visione armonica e razionale dello spazio.
Giorgio Vasari (1511 – 1574) nelle sue “Le vite” – 1550, racconta che Brunelleschi, riguardo ai suoi studi sulla prospettiva, «… trovò un metodo che permettesse di ottenere un risultato corretto e perfetto. Questo metodo consisteva nel rappresentarla usando la pianta e il profilo (prospetto), e attraverso il metodo dell’intersezione».
Grazie a Vasari, testimone oculare della temperie culturale dell’epoca ci descrive un tempo in cui l’arte rinasce letteralmente dopo secoli di decadenza, e lo fa riprendendo i modelli e i valori dell’antichità classica. Influenzato dal neoplatonismo rinascimentale, un movimento filosofico sviluppatosi a Firenze grazie a figure come Marsilio Ficino (1433 – 1499) e sostenuto da Lorenzo di Piero de’ Medici, meglio conosciuto come Lorenzo il Magnifico (1449 – 1492). Questo pensiero vedeva l’arte come un mezzo per avvicinarsi alla bellezza ideale e alla verità spirituale, concetti che riteneva fondamentali e distintivi tra l’arte italiana e il realismo dei fiamminghi. Individuando in Giotto di Bondone (1267 – 1337) il primo grande innovatore, capace di rompere con lo stile bizantino e di avviare cosi un processo di rinnovamento dell’arte. Processo – secondo Vasari, che raggiungerà il suo apogeo con figure come Leonardo da Vinci, Raffaello Sanzio e Michelangelo Buonarroti, quest’ultimo considerandolo come il massimo esempio di perfezione artistica.
Ma Vasari era davvero obiettivo nelle sue critiche alla pittura fiamminga, o era forse condizionato dal campanilismo tipico della tradizione toscana? Dopotutto, la rivalità tra Lucchesi, Pisani e Fiorentini è ben nota e rappresenta l’origine stessa del termine campanilismo. Figuriamoci nei confronti degli artisti del nord Europa! Vasari riteneva che l’arte dovesse trascendere la semplice rappresentazione del mondo visibile, puntando a una forma più elevata di bellezza e significato, come prescritto dai principi del classicismo. Secondo lui, i fiamminghi si perdevano nei dettagli minuti e negli ornamenti, a scapito della composizione complessiva e dell’armonia dell’opera. In questo, Vasari differenziava chiaramente l’arte italiana, che ammirava per la sua capacità di bilanciare dettagli, composizione, e un’idea universale di bellezza.
Ma la cosa più affascinante per me è la prospettiva intesa come inganno. Platone, nella sua “Repubblica”, disapprovava l’arte perché la considerava una copia ingannatrice della realtà, un’imitazione lontana dal mondo delle idee, che distoglie l’anima dalla verità. Platone affermava che gli artisti creano un’illusione, una copia della copia, poiché la realtà sensibile è già una pallida imitazione del mondo delle idee. Nel Libro X della Repubblica, Platone afferma che l’arte è tre volte lontana dalla verità perché è una mera imitazione della realtà, la quale a sua volta è un’imitazione delle Idee, le forme perfette e immutabili che rappresentano la vera essenza delle cose. Di conseguenza, l’arte imita non l’essenza, ma l’apparenza di oggetti che sono già copie imperfette delle Idee, distanziandosi ulteriormente dalla verità assoluta. Pertanto, l’arte non può mai condurre alla conoscenza autentica, ma solo all’inganno e alla confusione dei sensi. Ma forse a volte, cerchiamo proprio l’inganno, perché dentro di noi c’è quel desiderio di meraviglia, quel sogno innocente di ritornare in quella terra… da cui siamo stati scacciati.
Come nel film “The Prestige”, in cui John Cutter (Michael Caine) dice: “Ogni numero di magia è composto da tre parti o atti. La prima parte è chiamata la Promessa, l’illusionista vi mostra qualcosa di ordinario. La seconda parte è chiamata la Svolta: l’illusionista prende quel qualcosa di ordinario e lo trasforma in qualcosa di straordinario. Ma ancora nessuno applaude, perché far sparire qualcosa non è sufficiente, bisogna anche farlo… riapparire! Ora, la verità è che noi stiamo cercando il segreto, il trucco, ma non riusciamo a trovarlo, perché in realtà non stiamo davvero guardando. Noi non vogliamo davvero sapere – noi vogliamo essere ingannati!“
Forse, anche la prospettiva artistica è un trucco che scegliamo di accettare, un modo di guardare il mondo da un angolo che non è necessariamente vero, ma che ci promette qualcosa di straordinario. E in fondo, non è questo il potere dell’arte? L’abilità di farci vedere la realtà in modo nuovo, di mostrarci ciò che è ordinario trasformandolo in straordinario, di farci credere che, per un attimo, ciò che sembra impossibile possa diventare reale.